«Falcone tracciò la strada che noi oggi percorriamo», Lombardo e Dolce indicano la direzione della lotta alla 'ndrangheta: specializzazione e condivisione di informazioni - VIDEO
I principali strumenti con cui si contrasta la mafia oggi sono il frutto di un’esperienza di oltre trent’anni fa. Un’esperienza che nonostante la violenza e le ostilità, che pure ci furono, ancora oggi fa scuola. La Direzione Nazionale Antimafia diretta dal Procuratore nazionale antimafia – centro di coordinamento delle indagini sulla mafia – è una insostituibile eredità dell’operato e dell’intuizione di Giovanni Falcone. E tuttavia, nel 1992 non fu lui ad essere nominato alla prima guida della neonata Direzione nazionale antimafia. La Dna come l’aggressione alla dimensione economica criminale della mafia, poi compiutasi con l’intuizione di Pio La torre della confisca dei beni.
Fu proprio il maxiprocesso a Cosa Nostra, istruito con dovizia e arguzia da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino a segnare il traguardo più alto del pool ma anche l’inizio della sua fine. Nato dall’intuizione di Rocco Chinnici nel 1983 e reso operativo e sviluppato da Antonino Caponnetto, fu sciolto nel 1988 da Antonino Meli. Fu lui ad essere stato preferito proprio a Giovanni Falcone per la guida del pool dopo Caponnetto. Falcone a Roma alla direzione generale degli Affari Penali e l’amico e collega Paolo Borsellino a Marsala a guidare la procura della Repubblica. L’esperienza del pool antimafia di Palermo, tuttavia, non andò dispersa.
Ancora oggi è considerata il modello attorno al quale ha iniziato a strutturarsi il sistema di contrasto della criminalità organizzata, con la Procura e la Direzione nazionale Antimafia e le distrettuali come quella di Reggio Calabria, capace di mettere in atto operazioni complesse come la recentissima Millennium. Per questo, oltre che per l’imminenza dell’odierno 33° anniversario della strage di Capaci, il nome di Giovanni Falcone è stato più volte evocato. È accaduto in occasione della conferenza stampa di qualche giorno fa, sottolineandone le lungimiranti intuizioni ancora oggi attualissime.
Alta specializzazione e approccio attento alle trasformazioni
«La denominazione Millennium dell’operazione non è casuale. Ha a che fare con il tempo riferito a una struttura criminale che opera da un tempo davvero difficile da definire. Certamente, opera in permanenza e continuità, richiedendo da parte nostra, uno sforzo costante, sempre maggiore per dare risposte. Ma le risposte non vanno date solo in ambito giudiziario per ottenere anche un imprescindibile e forte impatto sociale. Questa operazione – ha sottolineato il procuratore della Repubblica ff di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo – ha richiesto l’analisi di 233 anni di conversazioni e uno sforzo davvero significativo in termini di impegno, tempo e alta professionalizzazione. Proprio ciò di cui parlava Giovanni Falcone che in questi giorni ci troviamo a ricordare. Un’alta specializzazione perché è un crimine organizzato di tipo specialistico. Qui a Reggio Calabria, questa capacità non è mai mancata ecco perché le risposte importanti sono sempre arrivate.
Locali, articolazioni e sotto articolazioni di scopo. La ‘ndrangheta si è strutturata in maniera straordinariamente moderna, redendo anche l’investigazione, e quindi l’accertamento delle responsabilità, compiti particolarmente ardui. Occorre – ha sottolineato ancora il procuratore della Repubblica ff di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo – un approccio sempre attento a cogliere i nuovi indicatori di mafiosità per anticipare le risposte giudiziarie proprio perchè le tendenze espansionistiche della ‘ndrangheta potrebbero altrimenti condurre a risultati parziali, dandole il tempo di trasformarsi ancora. Dobbiamo abbattere quella lunghezza di distanza, che purtroppo il sistema mafioso ha nei nostri confronti, anche questa è un’espressione di Giovanni Falcone».
La Direzione nazionale Antimafia e l’intuizione di Falcone
In apertura della conferenza stampa i saluti e il plauso resi da remoto dal comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri, Salvatore Luongo. Presente anche Salvatore Dolce, sostituto procuratore della Dna, guidata da Giovanni Melillo. «L’atteggiamento della Procura che Reggio Calabria è sempre stato, ci tengo a sottolinearlo, un passo avanti a tutti nel condividere le informazioni, nella consapevolezza che una sola, sinergica e congiunta azione potesse essere decisiva nel contrasto alla ‘ndrangheta. Credo che questa sia una lezione di Giovanni Falcone e seguirla credo sia il modo migliore per ricordarlo. Ciò che oggi funziona, e questa operazione lo dimostra, c’è grazie al suo impegno e al sacrificio suo, di sua moglie e della sua scorta. La Direzione nazionale antimafia era stata pensata da lui. Quindi il modo migliore per conservarne la memoria è sottolinearne appunto lo valore ancora straordinariamente attuale ed essenziale». Così il sostituto procuratore della Dna, Salvatore Dolce.
23 maggio 1992, ore 17.57
23 maggio 1992, qualche minuto alle 18. Lo Stato fu colpito al cuore. Un‘infernale deflagrazione disintegrò 5 vite e ferì 23 persone. Una lunga scia di sangue sarebbe seguita a quella strage in prossimità dello svincolo di Capaci, a Palermo. La mafia dichiarava allo Stato una guerra che ancora oggi non è finita.
Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e gli agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, morirono a causa di quella violenta deflagrazione perché così aveva deciso Cosa nostra. Lo Stato, che si affermava con determinazione con le condanne del maxi processo, “andava fermato“.
Giovanni Falcone fu “preceduto” da Antonino Scopelliti, sostituto procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, assassinato il 9 agosto 1991 a Campo Calabro. Accadde prima delle arringhe nei giudizi di appello proposti avverso le sentenze di condanna del maxiprocesso, al quale il lavoro del pool aveva condotto.
Giovanni Falcone fu “seguito”, dopo solo 27 giorni, da Paolo Borsellino. Era il 19 luglio 1992.
In via D’Amelio un’altra esplosione uccise il giudice Paolo Borsellino e gli agenti della scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.
Giovanni Falcone e Antonino Scopelliti
I faldoni dei giudizi di appello proposti avverso le sentenze di condanna del maxiprocesso, nell‘estate del 1991 erano a Campo Calabro, nel reggino, all’indirizzo di Antonino Scopelliti, sostituto procuratore Generale presso la Suprema Corte di Cassazione, che lavorava al rigetto dei ricorsi avverso le condanne emesse in appello nel maxiprocesso di Palermo. Quella stessa estate, prima che potesse discuterle, il giudice Antonino Scopelliti fu assassinato. Giovanni Falcone si recò in Calabria, in quella circostanza, per manifestare vicinanza ai familiari.
Il maxi processo e la reazione violenta di Cosa Nostra
Oltre 2600 anni complessivi di reclusione comminati, 19 ergastoli tra i quali quello a carico di Totò Riina nella sentenza del Maxi processo di Palermo, confermata in Cassazione.
Fu il processo penale più imponente di sempre, 460 imputati, istruito da Falcone e Borsellino nella prima metà degli anni Ottanta. Quel giudizio per delitti di mafia era iniziato il 10 febbraio 1986 per terminare cinque mesi prima della strage di Capaci.
L’esperienza decisiva del pool antimafia di Palermo
Seguire i soldi non potendo seguire la droga. Coordinare le indagini per garantire un flusso costante e aggiornato di informazioni in modo da monitorare il più compiutamente possibile tutti i segmenti del complesso fenomeno mafioso. Esso, all’ombra dell’ondata terroristica, iniziava a divorare l’intero Paese. Dissero sì a questo metodo, valido ancora oggi come allora, Rocco Chinnici prima e, dopo il suo assassinio per mano della mafia il 29 luglio del 1983, il successore Antonino Caponnetto. Così nacque il pool antimafia che istruì il primo quel maxi processo contro Cosa Nostra della storia giudiziaria del nostro paese.
Ne facevano parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta. Decisiva fu per iniziare a svelare Cosa Nostra e la sua struttura la collaborazione del pentito Tommaso Buscetta. Un lavoro meticoloso tra centinaia di faldoni spulciati anche durante “l’esilio” nel 1985 sull’isola di Asinara, in Sardegna. Qui il capo del pool antimafia palermitano, Antonino Caponnetto, li aveva fatti trasferire con le famiglie, per proteggerli.
Processi e condanne
Per la strage di Capaci, seguirono processi che portarono a decine di condanne all’ergastolo. Tra esse quella del mandante Totò Riina e quelle di Bernardo Brusca, Giuseppe Calò, Raffaele Ganci, Benedetto Santapaola e Giuseppe Madonia, Matteo Messina Denaro. Sentenza di condanna anche per Giovanni Brusca, uomo di fiducia di Riina al quale fu affidato il telecomando a distanza che fece esplodere il tritolo nella strage di Capaci. E anche per Bernardo Provenzano, Michele Greco, Leoluca Bagarella, Filippo e Giuseppe Graviano, Salvatore e Giuseppe Montalto.