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14/11/2025 ore 13.03
Cronaca

Infanticidio a Villa San Giovanni: la sentenza sull’orrore del neonato nello zainetto e le domande che la società non può ignorare

La Corte d’Assise di Reggio Calabria ha condannato all’ergastolo Anna Maria Panzera per l’uccisione del neonato trovato morto tra gli scogli. Ma oltre alla sentenza resta il peso di una tragedia che, secondo molti, si poteva e si doveva evitare.

di Elisa Barresi

La Corte d’Assise di Reggio Calabria, presieduta da Tommasina Cotroneo, ha condannato all’ergastolo Anna Maria Panzera, riconosciuta colpevole dell’infanticidio del neonato ritrovato il 26 maggio 2024 in uno zaino abbandonato sulla scogliera di Villa San Giovanni.

La sentenza accoglie la richiesta del PM Tommaso Pozzati, che ha coordinato l’inchiesta insieme al procuratore aggiunto Walter Ignazitto. La condanna chiude il percorso giudiziario ma non il dibattito pubblico, né il dolore per una vicenda che ha scosso il Paese.

Il parto della tredicenne e il ruolo della madre

La ricostruzione effettuata dagli inquirenti è drammatica: la figlia di Panzera, una tredicenne con deficit psichico, partorisce in casa; il neonato nasce vivo, con il cordone ombelicale ancora attaccato. Secondo le prove acquisite, la madre avrebbe soffocato il bambino, chiuso in uno zainetto e poi abbandonato tra gli scogli, come confermato anche dalle immagini di videosorveglianza che hanno immortalato la donna.

La tragedia che si poteva evitare: un’analisi sociologica

Se la giustizia penale ha individuato un colpevole, la giustizia sociale appare ancora lontana. Intorno a questo caso rimangono aperte domande che interrogano istituzioni, servizi sociali e comunità educante.
Il primo interrogativo riguarda l’assenza di un intervento tempestivo nei confronti di un nucleo familiare già segnato da condizioni di forte vulnerabilità.

La presenza di una minorenne con deficit psichico avrebbe dovuto attivare automaticamente un monitoraggio costante del contesto familiare e del suo benessere psicologico e sanitario. Questo è avvenuto con la sufficiente efficacia? Ciò evidenzia una carenza strutturale di risorse e coordinamento tra scuola, sanità territoriale e assistenza sociale.

Una gravidanza invisibile: possibile o evitabile?

Come può una ragazzina di tredici anni portare avanti una gravidanza, quasi fino al termine, senza che nessuno — né in famiglia né a scuola — se ne accorga?

Gli esperti di sociologia dell’infanzia sottolineano che, in contesti familiari problematici, la capacità della minore di comunicare il proprio stato può essere fortemente compromessa. A ciò si aggiunge che il sovrappeso, l’abbigliamento largo o un forte ritiro sociale possono rendere meno visibili i segni fisici.

Ma l’interrogativo rimane: il sistema scolastico, che aveva già in carico la ragazza con un percorso educativo speciale, avrebbe potuto rilevare cambiamenti comportamentali, stati di malessere, assenze ricorrenti? La mancata rilevazione non appare un semplice caso, ma il segnale di una disattenzione diffusa.

Una famiglia in “zona d’ombra”

La famiglia viveva situazioni di disagio che, se intercettate, avrebbero potuto attivare misure di tutela ben prima della tragedia. Quando le fragilità si sommano — minorità, deficit psichico, isolamento sociale, mancato supporto sanitario — il rischio di esiti drammatici aumenta in modo esponenziale.

Eppure, troppo spesso, queste famiglie restano in una “zona d’ombra”: note ai servizi, ma non abbastanza prioritarie per interventi concreti.

Un ergastolo non basta a fare giustizia

La condanna di Anna Maria Panzera rappresenta un atto dovuto sul piano giudiziario, ma non placa le domande. Non colma la perdita di un neonato nato e morto nel silenzio di una casa già segnata dalla fragilità. Molti si chiedono se la tragedia fosse evitabile: se un sistema più attento, più integrato, più umano avrebbe saputo riconoscere i segnali prima che fosse troppo tardi.

Una comunità chiamata a cambiare

La vicenda non è solo il fallimento di una madre, ma il fallimento di un sistema sociale. Interroga scuole, assistenti sociali, medici, amministrazioni locali — e la comunità intera.

Perché una tragedia così non si ripeta, è necessario non solo giudicare i responsabili, ma costruire una rete di protezione reale attorno alle famiglie vulnerabili. Una rete che ascolti, che osservi, che intervenga prima, molto prima che l’irreparabile accada.

Nel frattempo, la tredicenne — ora affidata a una struttura protetta — porta con sé le cicatrici di una storia che nessuna sentenza potrà sanare del tutto.