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04/12/2025 ore 06.30
Cronaca

Omicidio Bruno Ielo, parla la figlia Daniela: «Come può essere venuta meno l'aggravante mafiosa emersa durante indagini?»

La recente sentenza di secondo grado, pur avendo confermato i due ergastoli, qualifica il delitto come voluto da "un altro tabaccaio" per sole questioni commerciali e concorrenziali. La figlia, che ha visto morire il padre quella sera del 25 maggio 2017, si dice indignata: «Di che giustizia parliamo?»

di Anna Foti

«Giustizia prima fatta e poi negata. Dopo tre anni i giudici mettono in discussione il lavoro meticoloso della squadra mobile della questura di Reggio Calabria che ha condotto le indagini dopo il fatto, negando che il contesto, appurato con prove e intercettazioni, dell'omicidio di mio papà sia stato mafioso. Sono amareggiata, delusa e disgustata. Cosa è dunque la Giustizia in questo Paese se un aggravante mafiosa prima accertata poi può scomparire così? In questo momento, d'istinto, vorrei chiudere tutto e andare via».

Sono parole molto dure quelle di Daniela, figlia dell'ex carabiniere in pensione, Bruno Ielo, ucciso la sera del 25 maggio 2017 sulla strada di casa, mentre rientrava a Catona dopo aver chiuso la tabaccheria di famiglia a Gallico. Lei c'era quando gli spararono, uccidendolo e lasciandolo a terra sull'asfalto.

La sentenza di secondo grado

I giudici della corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria, non hanno ravvisato l'aggravante mafiosa, pur confermando i due ergastoli. Franco Polimeni, cognato del boss Pasquale Tegano e, secondo l’accusa, il mandante del delitto per la concorrenza alla sua tabaccheria aperta nelle vicinanze dopo quella di Ielo. Francesco Mario Dattilo, ritenuto il killer che sparò due colpi di pistola.

La Corte d’Assise d’Appello, inoltre, ha ridotto la pena a Cosimo Scaramozzino (da 30 anni a 22 anni di carcere) e ha riformato la condanna di Giuseppe Antonio Giaramita (da 16 anni e 9 anni e 8 mesi). Quest'ultimo subito scarcerato per decorrenza dei termini massimi di carcerazione preventiva.

L'impianto accusatorio del pm Stefano Musolino, confermato dai giudici di primo grado del 2022, nel processo "Giù la testa", aveva inquadrato l'omicidio di Bruno Ielo come delitto di 'ndrangheta, commesso per la resistenza opposta dall’ex carabiniere che gestiva il tabacchino di famiglia. Senza cedere alle minacce, aveva continuato a operare nonostante la sua tabaccheria fosse sgradita a Franco Polimeni, cognato del boss Tegano, sospettato, pur non avendo mai riportato condanne definitive per associazione mafiosa, di essere uno dei vertici dell’omonima cosca di Archi, che ne aveva aperta un'altra nella stessa zona.

Bruno Ielo è anche tra le vittime innocenti delle mafie nell'archivio Vivi di Libera.

Non (più) presente l’aggravante mafiosa

La recente sentenza della corte d'Assise d'Appello di Reggio Calabria ha invece rivisto il contesto del fatto criminoso, inquadrando la matrice come squisitamente ed esclusivamente commerciale. L'esercizio commerciale era di disturbo alla nuova tabaccheria aperta nella zona. Dunque nessun aggravante mafiosa. Assolti, per questo, dal reato di estorsione e concorrenza sleale per non aver commesso il fatto Giuseppe Antonio Giaramita e Cosimo Scaramozzino.

Interrogativi senza risposta

Una decisione, quella dei giudici di secondo grado che alimenta nuovi e dolorosi interrogativi nella figlia Daniela. «Aprire un tabacchino dove già un altro è attivo e pretendere che di essere comunque da soli a dominare la zona non è forse un atteggiamento mafioso? Perchè mai Franco Polimeni, i cui legami familiari con il clan Tegano sono noti, avrebbe dovuto scomodare altre persone per uccidere mio padre, suo rivale commerciale? Perchè non ha agito da solo? Perchè solo alcuni mesi prima, mio papà era già stato ferito in occasione di una "finta rapina"? Perchè entrare in quattro nel tabacchino, sparare e poi non sottrarre nulla? Nulla fu portato via quella sera dal tabacchino.

E dunque assistiamo a una giustizia che rinnega sè stessa, che non riconosce improvvisamente più attendibile e condivisibile questo aspetto essenziale delle indagini svolte all'indomani dell'omicidio. Mi dispiace, oggi, per la memoria di mio padre, che era persona perbene e onesta, e anche per la memoria del vice questore della squadra mobile reggina, Sandra Manfrè, scomparsa lo scorso agosto, che aveva coordinato le indagini».

La giustizia di ieri non uguale a quella di oggi

«Oggi ho 44 anni. Ho portato avanti da sola l'attività dopo la morte di mio padre, un giorno dopo l’altro, nonostante il senso di solitudine. Abbiamo avuto accanto solo la fondazione Girolamo Tripodi, presieduta da Michelangelo Tripodi, che era un amico di papà. Oggi – racconta ancora la figlia Daniela Ielo – sento di avere perso la fiducia.

Non mi spiego come, dopo indagini che, appurando un nesso con la precedente" finta rapina", avevano accertato che mio padre non fosse stato ucciso "da un altro tabaccaio" per motivi commerciali e concorrenziali ma dal parente di boss di 'ndrangheta, l’aggravante mafiosa oggi possa essere caduta. Che giustizia è quella che si contraddice. Se le prove raccolte all'epoca non convincono più, quali sono oggi le prove per affermare il contrario? Sono delusa e indignata ma con la voglia di affermare una verità che è stata smentita e non sappiamo il perchè».

I familiari che sopravvivono

Le motivazioni della sentenza saranno depositate entro i prossimi tre mesi. Ma intanto si riaprono ferite mai sanate e insanabili.

«Nessuno credo pensi davvero a noi familiari. A cosa questi delitti lasciano intorno e dietro di loro. Nessuno credo si chieda cosa accada alle famiglie che restano, ai figli, che come me, vedono il proprio padre cadere per mano criminale, senza potere fare nulla.

Il tabacchino di famiglia era gestito da me e mio padre. Quella sera, come ogni sera dopo il suo ferimento nel novembre precedente, eravamo usciti insieme. Io avanti con la macchina e lui dietro a bordo del suo scooter. Sul ponte di Catona, gli spari. Dallo specchietto retrovisore vidi lui cadere e poi un motorino sfrecciare via. Mi fermai subito per correre da lui, riverso a terra. Poco distante la pistola con cui era stato ucciso.

Nessuno si sofferma a capire come ci si possa sentire in momenti come quello. Momenti che segnano e che non finiscono mai. Quando poi la giustizia è così altalenante, quel senso di solitudine e di impotenza si acuisce ancora di più

Cosa dobbiamo aspettarci adesso? Un ricorso in Cassazione e una buona condotta che attenuerà le pene? Lo Stato non è in grado di tutelarci e di assicurare giustizia. Tutto quanto sentiamo si riduce a sole parole quando, anche davanti all'evidenza dei fatti, si consente che sia trovato il modo di stravolgere la realtà. Mi sento avvilita. Chi lavora onestamente non ha alcuna tutela. Non lo stesso si può dire di chi invece onesto non è», conclude Daniela Ielo.