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25/10/2024 ore 08.30
Cronaca

Tiberio Bentivoglio ancora nel mirino dei clan: a fuoco un capannone ad Ortì

L’incendio di natura dolosa ha provocato la distruzione del manufatto e di alcuni costosi macchinari. Il testimone di giustizia si dice «stanco e deluso». E a novembre saprà se potrà avere ancora la scorta
di Redazione

Nuova intimidazione ai danni del testimone di giustizia Tiberio Bentivoglio. Ignoti, nei giorni scorsi, hanno dato alle fiamme il capannone situato ad Ortì, zona collinare di Reggio Calabria, dove l’imprenditore ha un frutteto ormai da diversi anni. Un atto di chiara matrice dolosa che fa ripiombare Bentivoglio nell’incubo vissuto già negli anni scorsi con un rosario di intimidazioni, danneggiamenti e anche un tentato omicidio.

Tutto avviene qualche giorno addietro intorno alle 7.30 del mattino. Bentivoglio giunge in prossimità dell’ingresso e si accorge che qualcosa non va: c’è dell’acqua che scorre e un tubo di plastica completamente bruciato. Il poliziotto che tutela la sua sicurezza lo blocca ed entra all’interno del frutteto. L’immagine è spettrale: il manufatto, adibito a deposito agricolo, è totalmente distrutto con tutto ciò che vi era all’interno, ossia strumenti come motozappe e motocoltivatori di particolare valore. Tutto carbonizzato.

Bentivoglio manca da quei luoghi da qualche giorno. Il podere è piuttosto isolato e, dunque, facile da raggiungere per chi ha intenti criminali.

Rogo di natura dolosa

Le abbondanti piogge, questa è la ricostruzione avvenuta nelle ore successive al rinvenimento del manufatto carbonizzato, hanno spento il rogo, portando via persino l’acre odore del fumo che solitamente rimane impregnato per settimane. Sul posto giungono i carabinieri. In un primo tempo intervengono anche i vigili del fuoco. Poi, l’arrivo degli specialisti del Sis dell’Arma, le sezioni investigazioni scientifiche facenti parte dei Ris, serve a “congelare” la scena. Una certezza sembra emergere subito: nessuna autocombustione o simili. L’incendio ha una chiara matrice dolosa e l’innesco è stato effettuato con tutta probabilità con della benzina, facendo partire il rogo da due diversi punti.

Le intimidazioni e il tentato omicidio

Per Tiberio Bentivoglio è una scena già vista. È quello il luogo nel quale fu piazzata una bombola piena di gas davanti al cancello d’ingresso. Così come è quello il luogo prescelto per piazzare sul cancello 40 centimetri di salsiccia con un messaggio sinistro molto chiaro. Ma, come accennato, quel frutteto è soprattutto il teatro del tentato omicidio che nel febbraio di 13 anni fa stava per mettere fine all’esistenza di un uomo che ha sfidato la ‘Ndrangheta con le sue denunce. In quel caso, alla furia omicida dei sicari in moto si oppose una singolare e fortunata circostanza: il proiettile diretto alla schiena di Bentivoglio, e che quasi certamente ne avrebbe provocato la morte, fu bloccato da un marsupio in cuoio che ne attutì l’impatto.

Qualche giorno fa, all’imprenditore reggino è sembrato di rivivere un flash back dal gusto particolarmente amaro. Titolare di una sanitaria un tempo ubicata nel quartiere Condera di Reggio Calabria, Bentivoglio e sua moglie, Vincenza Falsone, finirono nel mirino della ‘Ndrangheta per essersi opposti al pagamento del pizzo già dal 1992. Prima furti di merce per centinaia di migliaia di euro, l’incendio di un mezzo aziendale e, infine, la distruzione della sanitaria “S. Elia” il 5 aprile del 2003.

Come allora, anche pochi giorni addietro, dunque, il fuoco è il mezzo prescelto dai balordi per incutere ulteriore timore a Tiberio Bentivoglio.

L’isolamento imprenditoriale e la revoca della scorta

Per l’imprenditore reggino, però, l’aspetto forse più duro da digerire è quello riguardante uno strisciante e singolare isolamento cui è stato sottoposto nel corso del tempo e che lo ha portato spesso a pensare di desistere e lasciare tutto. Propositi sempre rientrati perché non è possibile darla vinta alla ‘Ndrangheta che ha sempre desiderato la fine delle attività di Bentivoglio e della sua famiglia. E così lui è andato avanti non piegando mai la testa e affrontando tutte le difficoltà, anche quelle derivanti da questioni burocratiche statali.

Oggi, però, la situazione diventa ancora più complicata a seguito della decisione, da parte del Ministero dell’Interno, di revocare la scorta al testimone di giustizia. Con una semplice telefonata, nell’aprile scorso, una funzionaria annunciava la fine del servizio di protezione. Una decisione incomprensibile per Bentivoglio che, anche in quel caso, non si è fermato e ha presentato ricorso d’urgenza del Tar del Lazio che, ritenendo sussistenti le ragioni di estrema gravità e urgenza, ha sospeso la revoca della scorta, in attesa della decisione nel merito che arriverà nel prossimo mese di novembre.

L’imprenditore: «Stanco e deluso. Ma le mafie non dimenticano»

Bentivoglio, ormai da otto anni, ha aperto la sua sanitaria sul lungomare di Reggio Calabria, pagando l’affitto di un bene confiscato alla mafia e assegnato al Comune reggino. «È l’unico caso in Italia per un testimone di giustizia ed è uno schiaffo per le cosche», afferma quando lo incontriamo. Ma appare molto provato da questo nuovo atto intimidatorio: «Rimango in attesa di giustizia. Mi piace ripensare ad una frase di Giovanni Falcone che credo dipinga bene cosa sia la ‘Ndrangheta, sebbene lui si riferisse alla mafia. Diceva: “La mafia è una pantera. Agile, feroce, dalla memoria di elefante”. Ciò per dire che la ‘Ndrangheta non dimentica. E se io ho denunciato vent’anni fa, questo non significa che i mafiosi dimentichino cosa è avvenuto. Sono stanco, sono deluso, ma so che quei commercianti che hanno denunciato continuano a rimanere nel mirino delle mafie. Possono passare anni anche, ma la vendetta arriva». E quanto avvenuto pochi giorni fa nel frutteto di Ortì sembra un sinistro ed eloquente promemoria per Bentivoglio e tutta la sua famiglia. E indirettamente, forse, anche per le istituzioni.