“Dora in avanti” inaugura la stagione del Teatro Primo con un monologo che scava nell’anima
Oltre 80 repliche in tutta Italia per il fortunato monologo di Domenico Loddo. Silvana Luppino si emoziona e commuove, con una storia in cui tutti possono trovare all'interno un pezzo di sé
C’è un momento, sul finale, in cui Silvana Luppino si ferma. Gli occhi lucidi, il respiro che si incrina, il pubblico sospeso. In quell’attimo, prima che le luci si spengano, si capisce che “Dora in avanti” è più di uno spettacolo: è un corpo a corpo con la vita. Il debutto al Teatro Primo di Villa San Giovanni, che ha inaugurato la dodicesima Stagione di Drammaturgia Contemporanea, è stato un ritorno potente e necessario. Dopo oltre ottanta repliche in tutta Italia, il monologo scritto da Domenico Loddo e diretto da Christian Maria Parisi ha ritrovato casa, restituendo al pubblico quell’emozione nuda e universale che lo ha reso un piccolo culto del teatro contemporaneo.
Silvana Luppino è magistrale. “Dora in avanti” le calza addosso come un abito di verità, perché dentro quella donna smarrita, ironica, rabbiosa, c’è tutto ciò che l’attrice è diventata nel tempo: maturità, precisione, istinto e ferita. Ogni parola di Loddo sembra nascere dal suo respiro, e quando arriva il finale, la commozione che la attraversa non è più solo scenica: è un moto autentico che la lega alla platea in un unico respiro.
Nel testo di Loddo, Dora Kieslowsky è una donna che si racconta per salvarsi. Fallita come figlia, moglie e madre, prova a riconnettere i frammenti della propria esistenza, sospesa tra colpa e speranza, tra il desiderio di fermarsi e quello di andare oltre. È un personaggio che attraversa il tempo come un’eco e una domanda: “Chi sono io?” La risposta, forse, non serve. Perché il teatro diventa specchio, e ogni spettatore, a poco a poco, scopre quanto di Dora gli appartiene.
La regia di Christian Maria Parisi amplifica questa vertigine con un linguaggio visivo intimo e sapiente. Il “cortile dei ricordi d’infanzia” che costruisce in scena è un luogo mentale: un altrove sospeso, dove il tempo si arrotola su sé stesso. L’altalena, simbolo centrale della piece, diventa metafora del continuo oscillare tra immobilità e movimento, tra infanzia e maturità, tra colpa e liberazione. Attorno, pochi oggetti - un baule, giochi di luce, una scultura in “shadow art” - bastano a evocare l’infinito. Si dimentica di essere a teatro. Ci si ritrova dentro la vita di Dora, dentro la propria.
«In un’ora di spettacolo accade un intero mondo. Dora parla di sé, ma in realtà parla di noi, delle nostre paure e della nostra capacità di sopravvivere al dolore» spiega Christian Maria Parisi. È anche per questo che il Teatro Primo ha scelto di aprire la stagione con questo titolo: un atto di fiducia nel potere della connessione umana. «Dora in avanti rappresenta perfettamente lo spirito di questa stagione: un viaggio dentro la fragilità e la forza dell’essere umano», aggiunge.
Silvana Luppino interagisce con il pubblico, si rivolge agli spettatori, li guarda negli occhi. Non c’è barriera tra chi recita e chi ascolta: la distanza si scioglie in un’empatia che diventa rito. «Non potrei farne una sinossi - dice - perché “Dora in avanti” sono io, e allo stesso tempo siamo tutti noi. È rabbia, solitudine, tristezza, ma anche capacità e resilienza. È la forza di rialzarsi, di continuare a camminare, o in questo caso, a dondolarsi».
La scrittura di Domenico Loddo, fatta di cerchi concentrici e parole che tornano come maree, scava nell’inconscio collettivo senza indulgere. È una lingua che non consola, ma svela. E la regia di Parisi la accompagna con leggerezza e precisione, dosando ombre e luce fino a fondere gesto e parola in un unico fotogramma.
Alla fine resta il silenzio. E poi gli applausi, lunghi, affettuosi. Silvana Luppino si commuove ancora, come se per la prima volta rivivesse quel dolore e quella rinascita. “Dora in avanti” è un invito a resistere, a nominare la propria fragilità, a credere nella forza che nasce dal riconoscersi negli altri. Ognuno, uscendo dal teatro, sa di aver lasciato un frammento di sé su quell’altalena che continua a dondolare.