Eugenio Finardi e il Sud che ritorna: “Tutto” come viaggio lungo cinquant’anni tra i palchi di tutta Italia guardando sempre al futuro
VIDEO | In occasione del suo ultimo concerto a Reggio Calabria, il cantautore ripercorre ai nostri microfoni mezzo secolo di carriera partendo dall’ultimo disco, tra suoni che si rincorrono nel tempo, un’Italia vissuta città dopo città e la speranza affidata alle nuove voci della musica di oggi
C’è un modo semplice per capire perché Eugenio Finardi abbia scelto di chiamare “Tutto” il suo ultimo disco: basta ascoltarlo mentre prova a spiegarlo. Il titolo, racconta, è arrivato dopo un cortocircuito ripetuto, quasi inevitabile. «Di cosa parla? Di tutto. Cosa c’è dentro? Di tutto. In che stile è? Tutti». Alla fine, quel rimbalzo continuo tra domande e risposte è diventato una dichiarazione: un album che tiene insieme cinquant’anni di strada, senza trasformarsi in celebrazione imbalsamata, e con l’ambizione di suonare come un lavoro di oggi.
Finardi lo dice con la lucidità di chi conosce i propri ritorni. «Tutto» contiene «tutti i cinquant’anni di esperienza dal primo album di inediti», però li rimette in circolo con un’idea precisa: guardare avanti. È un gioco di rimandi che somiglia a un gesto fisico, quasi atletico. Lui lo descrive come «tirare l’elastico della fionda per buttarsi in realtà nel futuro». Non è una frase a effetto: è il manifesto del progetto. Anche per questo la prima canzone si chiama «Futuro». E anche per questo, in mezzo ai brani nuovi, riaffiora un dettaglio tecnico e poetico insieme: una batteria nata anni fa, per «Trappola», torna a diventare sezione ritmica del terzo pezzo dell’album. Un’eco che attraversa le epoche, mentre la tecnologia di oggi spalanca «suoni interessantissimi» e, nella sua lettura, allunga il filo che dagli esperimenti di Battiato negli anni Ottanta arriva dritto al presente.
La tappa di Reggio Calabria, inserita nella rassegna «L’eleganza dell’arte» curata da Publidema, diventa così un passaggio naturale di questo racconto: un concerto che porta sul palco l’idea di un tempo unico, cucito con materiale diverso, passato e adesso, memoria e proiezione. È lì che Finardi torna a mettere a fuoco un’altra trasformazione, più ampia della sua discografia: il cambio d’epoca della musica stessa. La paragona alle automobili, con una immagine immediata: una volta «era una 500», oggi «è un SUV». Il senso è chiaro: tutto è più complesso da abitare, più pieno di procedure, più ingombrante.
E proprio da qui parte il ricordo di un mondo musicale in cui le traiettorie si incrociavano con naturalezza, in cui i nomi non erano semplici collaborazioni, erano storie che si toccavano. Nel suo primo album c’erano presenze decisive; nelle sue prime stagioni di palco e di strada c’era un’Italia che si muoveva compatta, con amicizie, band, tournée, incontri che, a distanza di decenni, continuano a riapparire come nodi della stessa trama. «Tutto si lega e tutto torna», ripete, quasi a confermare che quel titolo non è solo una scelta grafica: è una chiave di lettura.
E poi c’è l’Italia concreta, percorsa davvero. Finardi non si definisce uomo di provincia o di capitale: si definisce abitante del Paese, visto «da dentro», sera dopo sera. Spiega di non aver avuto una carriera estera, per una ragione che nel cantautorato pesa come una legge: la lingua. «Il cantautorato richiede una conoscenza specifica della lingua». Quello che gli è rimasto, però, è un patrimonio raro: conoscere «ogni angolo d’Italia», tornare più volte negli stessi luoghi, vederli cambiare mentre cambia anche lui.
La memoria dei fan diventa specchio del tempo: «Sai, l’ho visto la prima volta a Polistena nel ’79…». È un dialogo tra generazioni, fatto di date, città, formazioni, e di quella fiducia sottile che porta ancora oggi una parte del pubblico a riconoscersi in una voce.
Quando lo sguardo scende verso il Sud, la sua risposta è istintiva, quasi emotiva: «Con malinconia, con affetto, con speranza». In poche parole, racconta una relazione complessa, capace di tenere insieme fascinazione e dolore, desiderio e ferite. E proprio la speranza, alla fine, diventa il punto più politico dell’intervista, perché Finardi la porta dentro una domanda che taglia il presente: esiste davvero una crisi del cantautorato giovane?
Lui ribalta l’assunto, senza esitazioni: le novità ci sono, «tante tante», alcune «in ebollizione» da tempo e ora finalmente viste. E soprattutto indica un fronte creativo preciso: le voci femminili, che in questo momento, a suo giudizio, stanno spingendo più in là la ricerca e l’immaginario. Canzoni diverse, sguardi diversi, parole che cambiano la prospettiva. È lì che colloca l’ossigeno del futuro.
La chiusura la consegna con una semplicità disarmante, da musicista che ha attraversato epoche e mode e resta ancorato al senso: «Sì, la speranza. Senza speranza cosa viviamo a fare?». È la frase che tiene insieme «Tutto» e i suoi cinquant’anni: non un bilancio, una spinta. E in quel salto, tra ciò che è stato e ciò che deve ancora arrivare, Finardi sembra dire che la musica serve ancora a questo: non a ricordare, a restare vivi.