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27/07/2025 ore 08.30
Cultura

L’uomo e la sua montagna, Gioacchino Criaco: la vocazione culturale e la forza di un’identità ancestrale - FOTO

Intervista con lo scrittore e fine intellettuale africese pronto per uscire in libreria con un nuovo “Anime nere”. «Sto in Aspromonte pure quando sono a lavorare a Milano, da sempre e per sempre»
di Redazione

di Maria Teresa D’Agostino – I suoi romanzi hanno la cifra dirompente della narrazione “in direzione ostinata e contraria”, che nasce nella forza di un’identità ancestrale, sempre sospesa nella bellezza di una Calabria tra luci e ombre, in difesa delle radici autentiche, contro le devianze di una fraintesa modernità. Gioacchino Criaco non si sottrae: nel suo pensiero, audace, coraggioso e anche provocatorio, il bianco e il nero sono estremi chiari, letture che non fanno sconti a nessuno.

C’è la devastazione ambientale nella più recente delle sue pubblicazioni, “Il custode delle parole” (Feltrinelli), ci sono gli anni dell’innocenza collettiva tra speranza e disillusione ne “La Maligredi” (Feltrinelli), e c’è un mondo dove “niente è come appare” nella trilogia che nasce con “Anime nere” prosegue con “Zefira” e si conclude con “American Taste” (Rubbettino).

Pagine e pagine di ammaliante racconto, a tratti anche fastidioso, respingente, come possono esserlo solo le cose che non si vuole ascoltare. Lo scrittore africese, aspromontano per nascita e cuore, scrive osservando da angoli inusuali, percorrendo strade poco battute.

Cosa significa resistere in questa terra oggi?

«Non amo i prefissi, in genere, il -re- in particolare, denunciano una mancanza pregressa a cui si vuol porre rimedio. Dovremmo parlare di “esistere” nella nostra terra, affermare il nostro stare in luogo di incantesimi, buoni e cattivi. Esistere prescinde anche dagli spostamenti perché c’è un connubio mentale con ciò che amiamo: non smettiamo di essere fratelli e sorelle per il fatto di abitare in luoghi diversi. Siamo figli, in eterno, di una madre seppur lontana. Sto in Aspromonte pure quando sono a lavorare a Milano, da sempre e per sempre».

Di recente, ha scritto della vacuità del “mito del successo”, in particolare alle nostre latitudini.

«La colpa più grave dell’intellettualità calabrese è non aver saputo opporre un racconto potente e capace di incidere nel contesto rispetto a un racconto esterno (o di traditori interni) che ha costruito un immaginario violentemente contro la Calabria. La realizzazione si ritiene possibile solo in caso di affermazione che sia extra-Pollino».

Lei dice: “Tutto è contro la nostra terra, anche la maggior parte di noi”. Cosa serve per invertire questa rotta?

«Il prevedere l’altrove come luogo eventuale non come meta a cui inevitabilmente votarsi. Quindi avere consapevolezza, nel bene e nel male, che sia il posto in cui si vive il luogo centrale in cui progettare un’idea di felicità possibile. Per me il mondo dovrebbe essere vasto e i paesi stare dispersi. Solo in questo modo cambia il principio della centralità che non può essere il frutto di prebende economiche ma il rifugio soprattutto dell’anima».

In un mondo che sembra ormai votato alla globalizzazione e alle grandi strutture, quanto è rivoluzionario puntare su luoghi che paiono ai margini, come l’Aspromonte?

«In fondo ciò che conta veramente è il villaggio, l’unità elementare, è l’angolo a definire lo spazio intorno. Solo nel piccolo si può provare a fare piccoli cambiamenti in connessione gli uni con gli altri. È il principio della costruzione della casa: si parte dalle fondamenta. Il fallimento delle buone intenzioni passa dal volersi cimentare con questioni troppo grandi in cui voci singole non hanno alcun significato. È il trucco demoniaco del sistema: ognuno di noi si dà un tono, si dà alla critica del grande groviglio e l’angolo di casa sta impietosamente sporco».

A proposito di luoghi ed eventi fuori dal sistema, anche quest’anno, il 23 e 24 agosto, ci sarà il raduno sotto le querce di Africo Antica, un appuntamento atteso che porta anche come identificativo bellissimi disegni del fumettista Vincenzo Filosa. Cosa rappresentano queste giornate?

«Ogni anno ci diciamo che il raduno di “Gente in Aspromonte” quest’anno non ci sarà, perché, ovviamente, abbiamo passato un anno a non pensarci. Poi, nei giorni prossimi al consueto fine settimana post-ferragosto, tutto si autodefinisce. E siamo all’ottava edizione. Questa è la magia dell’Aspromonte. Il miracolo di un popolo d’Avvento. Un gruppo di ragazzi che raduna in montagna centinaia, qualche volta migliaia, di persone, sotto le querce millenarie di Carrà. Artisti di vario genere, politici, magistrati, pastori… l’umanità, in sostanza. Uno degli scopi è mostrare quanto tutti siamo in un’identica dimensione e quanto i potenti siano in genere sovradimensionati. Fra le fronde delle antiche madri spira un senso di eguaglianza, vige la spoliazione da sovrastrutture di uso quotidiano».

Come immagina la Calabria fra vent’anni?

«Immagino al massimo le ore che dall’alba ci porteranno al tramonto perché questa è la nostra vocazione culturale. Per questo non costruiamo sintatticamente i tempi verbali al futuro. Siamo dentro a una meraviglia della natura così grande che lasciamo agli dei il disegno del destino concentrandoci, noi, nel godimento delle ore più prossime. I vent’anni a venire li mettiamo dentro un’ipotesi indefinita fisicamente strutturata in manufatti cementizi di là da finire».

E, invece, cosa significa oggi custodire la montagna?

«Non mandare in RSA la propria madre scoprendo che lei e ancora lei sarà il nostro futuro, la nostra opportunità più importante».

Arriverà a breve un suo nuovo romanzo?

«Sì, sarà un riavvolgere il nastro da dove sono partito, il dono di Mana Gi. Un nuovo “Anime nere!”».