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10/02/2025 ore 07.30
L'editoriale

Il giorno del Ricordo, l'esilio dall'Istria e dalla Dalmazia e poi la nuova vita a Reggio: ecco chi erano Lidia e Giovanni

Lei è mancata qualche mese fa. Lui nel dicembre 2023. Entrambi avevano ricominciato qui, in riva allo Stretto, dove vogliamo far risuonare le loro testimonianze per non dimenticarli, per non dimenticare
di Anna Foti

La storia ha bisogno di testimoni per avere una voce nel presente e diventare memoria collettiva, monito per non dimenticare. E quelle testimonianze tengono vive le storia di quelle persone anche oltre la loro vita. E quando la storia di cui sono stati testimoni è di violenza e orrore, quelle testimonianze sono fondamentali per ricordare quanto sia stato possibile commettere e per sperare di essere capaci di non ripeterlo. Purtroppo la città di Reggio e la Calabria sono orfani dal dicembre 2023 di Giovanni Carlini, esule dalmata, e dal novembre dello scorso anno di Lidia Muggia, esule istriana. Entrambi, dopo l’esilio, qui avevano ricominciato, avevano avuto una famiglia e una vita piena. Vogliamo far risuonare le loro testimonianze per ringraziarli, per non dimenticarli, per non dimenticare.

Entrambi orgogliosamente italiani fino alla fine e come allora, quando per esserlo stati avevano dovuto lasciare tutto, all’ombra di storia e di una persecuzione indegne. Entrambi vissero a Reggio Calabria, lasciandoci la loro testimonianza, preziosa sempre non solo oggi.

Non solo in occasione del giorno del Ricordo, in cui si commemorano le vittime delle foibe, inghiottitoi naturali, fosse scavate nel Carso, regione comune ad Italia, Slovenia e Croazia, e altre gole ricavate in territorio istriano dove vennero gettati migliaia di militari e civili italiani (secondo alcune fonti 5000 secondo altre 11000). Molti furono gettati ancora vivi, altri dopo essere stati torturati e fucilati dai partigiani comunisti di Tito che, tra il 1943 e il 1945, attuò in questo modo disumano una violenta avanzata allo scopo di epurare i territori dai fascisti – tutti gli italiani erano ritenuti tali – e dai collaborazionisti.

La persecuzione e l’orrore

Un destino atroce, nel Secondo Dopoguerra, fu così quello di migliaia di Italiani residenti in Dalmazia e Venezia Giulia (Trieste, la penisola d’Istria con Pola, Fiume con le isole le isole del Quarnaro Gorizia), lembo di terra lambito dal mar Adriatico Orientale. Nell’epoca dei nazionalismi e dei totalitarismi, l’intolleranza delle popolazioni slave nei confronti degli italiani-fascisti, esacerbata dall’italianizzazione forzata perpetrata dal regime di Mussolini, dopo l’Armistizio di Cassibile (firmato il 3 settembre 1943 ed entrato in vigore l’8), sfociò in un massacro a lungo rimosso e ignorato dalla Storia.

Orrore e morte in quel tormentato litorale adriatico dove silenziosamente si consumava un massacro che ebbe i contorni netti e drammatici di una pulizia etnica per mano dell’Armata Popolare di Liberazione della Yugoslavia, spinta da chiare mire espansionistiche di stampo comunista e che troppo a lungo rimase taciuta. Un inferno scandito da persecuzioni, annegamenti, deportazioni, omicidi di massa.

L’immagine più drammatica di questo brutale accanimento furono proprio le foibe dove venne gettata anche la studentessa di origini istriane, Norma Cossetto, medaglia d’oro al Valore Civile, ricordata con una targa, recentemente vandalizzata e poi sostituita dalla Città Metropolitana, presso l’area sacra Griso- La boccetta”, in via Torrione a Reggio Calabria. Unico segno in città che ricordi quella pagina buia della nostra storia. In quel clima di terrore, in migliaia divennero esuli per sfuggire alla repressione e ad una forzata cittadinanza slava. Una condanna all’esilio per sopravvivere e restare italiane e italiani. Una condanna all’esilio che segnò le vite di Lidia Muggia e Giovanni Carlini che qui a Reggio Calabria poterono ricominciare, senza mai dimenticare.

«Da una parte i tedeschi e dall’altra i titini»

«Eravamo costantemente sorvegliati e circondati: da una parte i titini e dall’altra i tedeschi. Passammo momenti di terrore paura di essere fucilati perché italiani nella terra dove io e i miei fratelli eravamo nati e dove improvvisamente tutto ci era ostile».

Lidia Muggia, era nata a Canfanaro in Istria nel 1938, fuggita a Trieste nel 1946 e da oltre 50 anni viveva a Reggio Calabria. Era soltanto una bambina quando conobbe la persecuzione per il solo fatto di essere italiana. Soltanto una bambina. Eppure non ha mai dimenticato la paura e il terrore che avevano segnato la sua infanzia coincisa con la lotta partigiana condotta dal maresciallo Tito per riunire i paesi slavi come l’Istria, italiana ma controllata militarmente dai tedeschi. Una lotta che alla fine della Seconda Guerra mondiale degenerò nell’orrore delle uccisioni di massa degli italiani ritenuti tutti fascisti e gettati nelle fosse carsiche note come foibe. Una lotta che costrinse migliaia di italiani all’esodo.

«Non dimenticherò mai i fucili puntati e le urla quella notte – raccontava Lidia Muggia – in cui esplose il treno vicino al casello ferroviario accanto al passaggio a livello della linea Campo Marzio di Trieste – Pola. Era una zona presieduta dalle truppe naziste e in quel casello lavorava mia madre e noi tutti vivevamo. Per quell’esplosione mia madre, di origini italiane, fu accusata di complicità dai tedeschi e portata via da noi. Avevo solo sei anni. Non dimenticherò quei lunghi giorni in cui la chiamavo senza che lei potesse rispondermi. Poi un giorno la vidi ritornare da noi», raccontava ancora Lidia Muggia.

La madre Elvira, di origini piemontesi, donna di grande coraggio e rimasta vedova giovanissima, fu a lungo interrogata dai tedeschi prima di poter tornare dai figli. Dopo quanto era accaduto non restava che la fuga. La destinazione era stata l’Italia, dove l’esistenza non fu subito facile ma dove, nonostante l’esilio e le radici altrove, presto fu possibile per Lidia sentirsi in patria, finalmente in pace.

«Prima amici e un attimo dopo persecutori e perseguitati» 

«Solo dopo l’arrivo in Italia, nel 1949, seppi delle foibe e delle uccisioni di massa che tra il 1943 e il 1945 si erano consumate in quelle fosse scavate nel Carso».

Mentre, nella sua Dalmazia, si uccideva nelle foibe, Giovanni Carlini e la sua famiglia avevano conosciuto la persecuzione e la privazione di ogni libertà. Giovanni Carlini ha testimoniato cosa volesse dire sentirsi braccate in patria. Costretti a patire stenti, a nutrire paura e terrore e fuggire dal paese di origine.

Classe 1936, Giovanni Carlini aveva vissuto per 60 anni a Reggio Calabria, città sul mare che gli ricordava la sua bellissima isola natia Lagosta. L’isola improvvisamente diventata, dopo la fine della Seconda Guerra mondiale, una terra in cui non poter essere più italiani senza rischiare la vita.

«Ci siamo accorti di essere odiati, improvvisamente da un giorno all’altro. Un odio – raccontava Giovanni Carlini – che ancora oggi non mi spiego. Non so se le parole possono spiegare, ma spero che possano. Tito aveva il progetto di riunire tutta la Jugoslavia e le popolazioni slave. Ma in Dalmazia, per esempio, la prevalenza della popolazione era, come noi, di discendenza italiana e non disposta a rinnegarlo. La convivenza che, fino a un attimo prima, era dunque sempre stata pacifica divenne segnata da aspre ostilità e pregiudizio perché gli italiani, secondo i titini comunisti, erano tutti fascisti e dunque nemici

Prima amici e un attimo dopo persecutori e perseguitati. Abbiamo vissuto un periodo terribile e una fame indescrivibile. Pur nel dramma, solo in seguito abbiamo realizzato quanto eravamo stati fortunati. Sulla terraferma la situazione era ancora più tesa e tragica. Mentre noi venivano perseguitati, vivevamo nella fame e nel terrore di essere fucilati da un plotone di esecuzione, lì c’erano le foibe sul cui orlo si arrivava senza neppure sapere perché. Si veniva accusati ingiustamente e si veniva condannati a morte per puro arbitrio, solo perché italiani», raccontava ancora.

Il Giorno del Ricordo

Istituito con legge in Italia nel 2004, il 10 febbraio è il giorno del Ricordo in cui con molto ritardo si recupera la memoria di questa tragedia a lungo dimenticata e addirittura negata. La data richiama il 10 febbraio 1947 in cui fu firmato a Parigi anche il Trattato di Pace che definì i confini di quelle terre tra Italia e Jugoslavia. Una memoria che si salva da un oblio in cui è rimasta avvolta troppo a lungo. Si tenta di ricucire uno strappo che ancora sanguina e che necessita di un tempo vigile e nutrito di memoria per essere sanato.