Il silenzio colpevole: La morte di Paolo e la responsabilità degli adulti
È suonata la campanella ma non per tutti. Non sono ancora iniziate le lezioni ma parliamo già di bullismo. Fare mea culpa è troppo semplice, parlare di bullismo riduttivo perché le responsabilità si possono ricercare in modo trasversale e non solo puntando il dito sui coetanei.
Paolo aveva solo 14 anni. Un’età che dovrebbe profumare di futuro, di possibilità, di sogni ancora tutti da scoprire. Invece, Paolo ha scelto il silenzio più estremo: quello del corpo che cade nel vuoto, quello della vita che si spegne per sempre, quello delle domande che non avranno più risposta.
È troppo facile, ora, parlare di bullismo. È troppo comodo circoscrivere tutto all’azione spietata di altri ragazzini, come se il male fosse nato e morto lì, nei corridoi di una scuola, negli sguardi e nelle parole di adolescenti crudeli. I ragazzini possono essere spietati, sì. Ma se lo diventano, è perché noi adulti abbiamo smesso di fare il nostro mestiere.
La responsabilità è nostra. È dei genitori distratti, dei docenti stanchi, di un sistema educativo burocratizzato, di una società che ha smesso di vedere la profondità per rincorrere solo la superficie. La responsabilità è di tutti coloro che avrebbero potuto — e dovuto — vedere il dolore di Paolo e invece non l’hanno visto.
Entrare in una classe significa molto più che fare il proprio lavoro. Non si entra per lo stipendio, non si entra per timbrare un cartellino. Si entra per guardare negli occhi dei ragazzi e vedere oltre. Si entra per accorgersi di quel silenzio che non è semplice timidezza, ma una richiesta d’aiuto. Si entra per coltivare piccoli semi, per proteggerli, per aiutarli a sbocciare, non per giudicarli secondo categorie vuote e rigide.
Non è possibile che nessuno abbia notato la sofferenza di Paolo. Non è accettabile che la sua unicità — i suoi capelli, il suo modo di essere, il suo talento forse fuori dagli schemi — siano stati usati come arma contro di lui.
Siamo tornati nel medioevo. Un medioevo fatto di pregiudizi moderni, travestiti da standard. Maschi con i capelli corti, femmine che non devono “esagerare”, corpi magri, vestiti alla moda, risposte giuste ma non troppo originali. L’apparenza è diventata la nuova verità. L’uniformità il nuovo rifugio. Il conformismo il nuovo valore. E chi non si adatta, viene escluso, emarginato, schiacciato.
Ma chi sono, davvero, i nostri ragazzi? Sono ciò che insegniamo loro a essere. Se insegniamo che la superficie conta più del contenuto, giudicheranno per quello. Se insegniamo che il diverso è una minaccia, lo attaccheranno. Se non insegniamo il valore della gentilezza, del rispetto, della bellezza autentica che abita ogni essere umano… allora siamo noi i cattivi maestri.
Siamo noi i vuoti a perdere. Noi, adulti condizionati da estetiche tossiche e modelli irraggiungibili. Noi, che inseguiamo perfezioni filtrate su Instagram e poi pretendiamo che i nostri figli siano migliori di noi, senza offrire loro nessun esempio. La morte di Paolo è un grido che ci chiama a una rivoluzione educativa.Serve una scuola che smetta di valutare solo con numeri e cominci a riconoscere le anime. Serve un’educazione che faccia spazio alla diversità, che insegni a dubitare, a sentire, a comprendere. Serve il coraggio di essere luce in un tempo buio.
Non basta piangere Paolo adesso. Bisogna cambiare, profondamente. Bisogna essere adulti migliori, insegnanti veri, genitori presenti, cittadini vigili. Bisogna proteggere i nostri ragazzi dal veleno dell’indifferenza, dell’omologazione, della superficialità. Perché non sia tutto inutile. Perché Paolo non sia morto invano. Perché nessun altro, mai più, debba scegliere il silenzio della morte per sfuggire al rumore di un mondo che non lo ha saputo ascoltare.