Meno etichette e più strumenti, il racconto dei giovani reggini oltre la maturità ha un bel finale
Esiste un racconto tossico e ripetuto, a tratti stucchevole, che ancora oggi circonda la gioventù: quello che la descrive come dispersa, disimpegnata, incapace di visione. È un racconto che si alimenta di luoghi comuni, di paure adulte, di nostalgie travestite da saggezza. Eppure, ogni tanto, si apre uno spiraglio. Un momento in cui quel racconto mostra tutta la sua inadeguatezza. Come accade quando, davanti a un microfono, a un esame, o semplicemente a una scelta, i ragazzi parlano davvero.
Raccontarsi per raccontare
La notte prima degli esami l’altroieri è stata un’occasione per leggere nei loro volti una domanda precisa: dove stiamo andando? E soprattutto: chi vogliamo diventare? In quelle ore sospese in cui non c’è solo l’ansia per una prova da affrontare, ma la percezione limpida che il tempo stia cambiando pelle, che da lì in poi nulla sarà più esattamente com’era prima. E quella consapevolezza non genera paura, ma tensione viva verso qualcosa che ha a che fare con la crescita.
Per molti, quasi tutti, questi sono i primi veri e propri esami della loro vita: i precedenti, quelli della licenza media, li hanno svolti in piena pandemia: pantaloncini sotto e camicia sopra, infradito ai piedi e genitori dietro lo schermo, tra un “prof, mi sente?” ed una webcam che non funziona.
Eredità da costruire
I giovani, oggi, non sono affatto disinteressati al futuro. Al contrario, lo osservano con occhi allenati alla complessità. Non cercano scorciatoie, ma significati. Non coltivano illusioni, ma possibilità. E lo fanno senza mai rinunciare al diritto di sbagliare, di cambiare idea, di imparare a leggere il mondo secondo codici che non sempre coincidono con quelli degli adulti. Parlano meno, forse. Sicuramente con noi. Ma quando scelgono di farlo, dicono cose che spiazzano per lucidità, profondità, precisione.
In loro c’è una fame di senso che non è mai urlata, ma si manifesta nei legami, nel bisogno di condivisione, nella ricerca ostinata di autenticità. C’è un bisogno radicale di riconoscimento: non per essere compatiti, ma per essere presi sul serio. Non vogliono essere etichettati come “generazione liquida”, “perduta”, “fragile”. Vogliono spazio. Vogliono essere parte attiva di un processo che riguarda tutti. Perché lo sanno bene: il futuro non si eredita. Si costruisce.
Insomma, diciamolo chiaramente: anche noi alla loro età eravamo definiti “la generazione peggiore”: “ma dove vogliono andare, questi qui?”, dicevano gli altri. Ma solo oggi ci rendiamo conto che, come cantava Umberto Tozzi, quegli altri siamo diventati noi.
Ed è proprio questa coscienza del futuro a rendere i giovani così urgenti, così necessari. Perché mentre gli adulti inseguono nostalgie e gestiscono eredità, loro pongono domande. Domande giuste, spesso scomode, quasi sempre ignorate. Chiedono coerenza, chiedono visione, chiedono alle istituzioni di essere presenti non solo quando c’è da esigere, ma anche quando c’è da accompagnare. E chiedono al mondo adulto di essere finalmente credibile.
La forza dell’insieme
Abbiamo visto ragazzi parlare di futuro con una maturità che disarma. Li abbiamo sentiti dire che non hanno bisogno di protezione, ma di strumenti. Che si fanno forza a vicenda perché sanno di poter contare l’uno sull’altro. Nonostante sappiano che la vita li porterà forse lontano. Non vogliono scorciatoie, ma occasioni vere. Non chiedono sicurezza assoluta, ma possibilità reali di crescita. E soprattutto, non vogliono farlo da soli. Perché hanno capito che è nella collettività che si costruisce davvero una traiettoria credibile.
C’è qualcosa di profondamente educativo in tutto questo. La capacità di riconoscere un tempo speciale, di non lasciarlo scivolare via nel rumore quotidiano. Questi ragazzi hanno dimostrato di saper dare valore al momento, di saperlo celebrare senza enfasi, senza sovrastrutture. Hanno rifiutato l’idea che tutto debba per forza essere spettacolare per avere senso. E hanno fatto del proprio stare insieme la dimostrazione più limpida di una maturità già in atto. Abbracciati, cantando Venditti e Rino Gaetano, ma anche qualche hit di quelle che “gli adulti” definiscono “deplorevoli”. E per la cronaca: “Notte prima degli esami”, e non solo quella, l’hanno saputa dalla prima all’ultima parola a memoria.
Lontani dai riflettori, lontani dagli stereotipi, lontani dalle aspettative altrui, i giovani continuano a prendersi sul serio. A credere che il cambiamento sia ancora possibile. E questa è la notizia più bella che abbiamo il dovere di raccontare.