Quel "no" che valse la deportazione: in memoria di mio zio Nino, il carabiniere
Essere antifascisti non è uno slogan, non è un semplice concetto da manuale di storia o una posizione politica. È un atto di amore per la libertà, un impegno per la dignità umana, una scelta di campo che definisce chi siamo e cosa vogliamo difendere. Per me, essere antifascista è qualcosa che porto nel cuore, profondamente intrecciato con la storia della mia famiglia. È una scelta che mio zio Nino Surace ha compiuto con un coraggio e una forza che ancora oggi mi riempiono di orgoglio e di gratitudine.
Viviamo tempi bui, in cui assistiamo al ritorno di un pericoloso fascino verso ideologie che pensavamo sepolte dal corso della storia. Le recenti proteste a Berlino contro l’ascesa dell’estrema destra e la normalizzazione di discorsi d’odio in molti Paesi europei sono segnali allarmanti. È una lezione del passato che stiamo dimenticando, una lezione scritta nel sangue e nella sofferenza di chi, come mio zio Nino, scelse di non piegarsi mai, anche a costo della propria libertà e della propria vita.
Essere antifascisti oggi significa capire che il passato non è mai davvero passato. Per me, questo significa ricordare e onorare chi, come mio zio, ha vissuto l’inferno per salvare la nostra umanità. Antonino Surace era un Carabiniere durante la Seconda Guerra Mondiale. Un uomo normale, con una famiglia, con i suoi sogni, ma con un senso del dovere che lo portò a fare scelte straordinarie.
L’8 settembre 1943, dopo l’armistizio, quando Roma fu invasa dai tedeschi e poi ai Carabinieri fu chiesto di giurare fedeltà alla Repubblica Sociale, lui disse «no». Non lo fece per coraggio, ma perché non avrebbe mai potuto tradire i suoi principi, il suo Paese, la sua umanità.
Quel “no” lo portò nei campi di prigionia nazisti. Fu deportato a Moosburg, nello Stammlager VII-A, e poi a Dachau, il nome che ancora oggi evoca l’inferno. Fu costretto a condizioni disumane, privato della sua libertà e della sua dignità. Eppure, in quelle circostanze, trovò la forza di restare fedele a se stesso.
Le sue stesse parole, tratte dal libro Viaggio nei miei ricordi, parlano di un uomo che scelse la prigionia pur di non cedere al compromesso: «Rifiutai ogni possibilità di liberazione, perché servire l’invasore avrebbe significato tradire tutto ciò in cui credevo. Non mi liberarono, ma in quel rifiuto io ero libero».
La deportazione è una ferita che non può mai rimarginarsi. Zio Nino scrisse di quel viaggio verso il campo di prigionia, in vagoni merci pieni all’inverosimile: «Eravamo ammassati come animali, cinquanta uomini per vagone. Non c’era spazio per sedersi, l’aria mancava, e il buio era totale. Ma il buio peggiore era dentro di noi: sapevamo che stavamo andando incontro all’ignoto, e che probabilmente non saremmo mai più tornati».
A Dachau, la brutalità toccò il suo apice. Non era solo un luogo di lavoro forzato e fame, ma un laboratorio di terrore, progettato per annientare l’anima prima ancora del corpo. Uno degli episodi che Zio Nino descrive con dolore è quello di una donna tedesca che cercò di portare acqua ai prigionieri: «La vidi avvicinarsi con un recipiente di terracotta, tenendo il suo bambino in braccio. La guardia la fermò, le strappò il bambino dalle braccia, lo lanciò sui binari e lo uccise. Non posso dimenticare il suo urlo, il suo dolore. In quel momento capii che il nazifascismo non uccideva solo i corpi, ma anche tutto ciò che c’è di umano e sacro».
Questa scena, che mio zio portò per sempre con sé, ci ricorda quanto il male possa essere crudele e quanto sia importante opporci ad esso, sempre e comunque.
Durante la prigionia, ci fu un momento che segnò profondamente mio zio: la visita di Benito Mussolini, ormai logorato dagli eventi, agli internati italiani. «Lo ricordo entrare nel campo, il viso stanco e tirato, gli occhi vuoti di chi sapeva di aver perso tutto: potere, credibilità, umanità. Ci parlò della Repubblica Sociale, ci chiese di aderire, promettendo un ritorno in patria e una nuova Italia. Ma nessuno di noi gli credette. Le sue parole cadevano nel vuoto, prive di forza, come quelle di un uomo finito». Avrebbe potuto scegliere una via più semplice: accettare di obbedire, evitare le privazioni, tornare a casa. Ma mio zio scrisse che quello fu il momento in cui molti prigionieri compresero che dire «no» non era solo un atto di resistenza, ma l’unico modo per conservare la propria dignità.
Dopo la guerra, mio zio tornò a casa, segnato nel corpo e nell’anima. Ma non perse mai la sua umanità e l’innata ironia che lo ha sempre contraddistinto. Era un uomo semplice, un uomo che non cercava medaglie, ma che portava con sé la consapevolezza di aver fatto ciò che era giusto. Io sono cresciuto con il peso di quella storia, ma anche con l’immenso privilegio di poterla raccontare.
Il suo sacrificio non passò inosservato. Dopo la guerra, gli fu conferito il distintivo d’onore per i patrioti “Volontari della Libertà” e la Medaglia d’Oro a fine carriera. Essendo stato deportato nei lager e avendo rifiutato la liberazione per non servire l’invasore tedesco e la Repubblica Sociale durante la Resistenza», recita la motivazione. Ma per lui, come scrisse, la vera ricompensa era un’altra: «Non sono un eroe, sono solo un uomo che non ha tradito».
Essere suo nipote significa ricordare ogni giorno che la libertà non è mai garantita. È un dono fragile, che va protetto con ogni fibra del nostro essere. Mio zio Nino mi ha insegnato che essere antifascisti non è solo un atto politico, ma un impegno morale, un dovere verso chi è venuto prima di noi e verso chi verrà dopo.
Guardandomi intorno, vedo un mondo che sembra aver dimenticato la lezione di uomini come lui. Il ritorno delle ideologie di odio, la normalizzazione della violenza verbale e fisica, l’indifferenza verso il dolore altrui sono segni preoccupanti. Essere antifascisti oggi significa non solo ricordare, ma agire. Significa opporsi con ogni mezzo al risorgere di ideologie che calpestano la dignità umana.
Mio zio Antonino Surace è stato un uomo libero in tempi di schiavitù, un faro di luce in un mare di tenebre. Il suo esempio vive in me, e spero possa vivere in chiunque legga questa storia. Perché il suo sacrificio e quello di migliaia di altri non sia stato vano, consentendoci di portare un po’ di luce nell’avvicinarsi di questi anni bui.