Le parole che bruciano, le donne che resistono: "Mai più sola" apre da Reggio una nuova stagione nella lotta alla violenza di genere - FOTO
Al Museo Archeologico Nazionale il Network LaC al fianco dell’Associazione Jole Santelli per una stagione di impegno permanente. Paola Santelli: «Nessuna donna deve sentirsi sola, né colpevole del male che subisce». Per la direttrice editoriale di LaC Maria Grazia Falduto «L’informazione non può essere spettatrice: raccontare significa proteggere»
La violenza non sempre lascia sangue sul pavimento. A volte ha il suono di una porta chiusa a chiave, il peso di un conto corrente negato, l’odore acre di benzina che cambia per sempre il destino di un corpo. A volte prende la forma di una sentenza sui social, di uno sguardo che giudica, di una comunità che usa il silenzio come arma. Tutto questo continua ad accadere, anche quando si finge di non vederlo, anche quando si preferisce credere che sia lontano, raro, “altrove”.
E invece no: è qui. È adesso. È nelle parole interrotte di una madre, nei passi veloci di una ragazza che rientra a casa, nelle ferite che non diventano notizia fino al giorno in cui qualcuno muore. È nelle stanze in cui si spezza la sicurezza, nei tribunali dove una donna deve raccontare cento volte la stessa storia, nelle scuole dove una ragazzina impara troppo presto che il suo corpo può essere bersaglio.
Questa verità, ieri sera, è entrata nella sala del Museo Archeologico di Reggio Calabria, grazie all’impegno dell’Associazione Jole Santelli, del Network LaC ma anche di tante realtà associative impegnate sul territorio, senza chiedere permesso. Nessun velo, nessuna distanza di sicurezza. L’urgenza era una sola: parlare. Dare nome a ciò che spesso si preferisce cancellare dai discorsi pubblici e dalle conversazioni familiari. Non si è parlato per riempire un calendario di iniziative, ma per impedire che altre donne si sentano senza scampo.
Solo dopo quelle voci i Bronzi di Riace sono apparsi diversi. Guerrieri immobili, figli di un tempo che ha celebrato la forza come dominio. Due giganti incapaci di proteggere le donne costrette ancora oggi a lottare senza scudi. Il museo non è stato un rifugio, è stato un varco. La Calabria ha ascoltato storie che non andranno rialzate sugli scaffali dell’indifferenza.
“Mai più sola” non è stato uno slogan. È diventato un patto civile, un appello lanciato dall’Associazione Jole Santelli insieme al Network LaC, chiamando attorno a sé magistrati, forze dell’ordine, avvocati, psicologi, attivisti, cittadini. A moderare l’incontro ed a tenere il filo conduttore delle tante voci in rosa è stata la giornalista di LaC News24 e vicedirettrice de ilReggino.it Elisa Barresi.
Una comunità intera convocata davanti al peso di una verità che non può essere rimossa. La voce di Paola Santelli, presidente dell’Associazione dedicata all’indimenticata Presidente della Regione Calabria e promotrice dell’iniziativa, ha costruito l’architettura della serata. «Oggi vogliamo parlare di femminicidio e di violenza di genere con una narrazione diversa – ha detto -. Vogliamo passare dalle parole ai fatti, creare una rete di protezione per le vittime e incoraggiare a denunciare. Nessuna donna deve sentirsi sola, né giudicata».
La sala ha compreso subito la portata di quell’intenzione: trasformare il linguaggio, perché molte ferite nascono anche da parole sbagliate. «Quando sentiamo definizioni come “raptus” o “gelosia morbosa” stiamo mascherando il dominio e la volontà di possesso» ha aggiunto Paola Santelli. L’evento ha preso da lì il suo respiro: un cambio di racconto, prima ancora che di norma.
La testimonianza della Sindaca di Gioia Tauro Simona Scarcella è arrivata come una scarica. Ha letto insulti che ogni giorno trova rivolti a sé sui social: «Sindaca bugiarda. Sindaca blasfema. Sindaca delinquente. Sindaca malata mentale. Sindaca prostituta. Sindaca vomito della Calabria», per citare quelli meno gravi. La sala ha ascoltato senza fiatare. La sindaca Ha parlato dei figli, costretti a leggere quell’odio. Ha raccontato il vicesindaco che resta in ufficio accanto a lei, perché la sua presenza diventa ogni giorno una forma di protezione. «Lunedì depositerò la quindicesima denuncia» ha detto. «Spero di poter dire un giorno ai miei figli: lo Stato c’è».
Davanti a quelle parole, è entrata la voce della testimonianza di Maria Antonietta Rositani, segnata dal fuoco e dalla resurrezione: «Mi ha versato addosso la benzina. Ho gridato: io torno dai miei figli». Il Museo ha trattenuto il fiato. Rositani ha raccontato l’attesa dell’aiuto, l’incendio, la pozzanghera che le ha salvato la vita, i duecento interventi chirurgici, i due anni di ospedale, il ritorno al mondo. «Le donne mi cercano perché temono di diventare come me. Io rispondo che devono trovare la forza prima. Aiuterò ognuna di loro». Non una testimonianza, un lascito.
Poi le parole di una madre che porta un dolore che nessuna lingua dovrebbe contenere. Gabriella Castelletti, madre di una delle ragazze coinvolte nel caso di stupro di gruppo a Seminara, ha evocato l’alba in cui la polizia è entrata in casa: «Mi hanno detto che mia figlia era parte lesa. Ho scoperto che era stata attirata, minacciata, violentata». Ha ricordato insulti sui social, sospetti, silenzi, fiaccolate dedicate ad altre storie, mai alla sua. «Se le autorità del mio paese fossero state più solidali, forse non avremmo dovuto cambiare vita». La violenza non è stata solo sul corpo della figlia, ma sulla pelle della comunità intera.
La voce giuridica è stata affidata all’avvocata Anita Liporace, collegata per la fondazione Doppia Difesa, con una definizione che ha tagliato in profondità: «Vittimizzazione secondaria. È la seconda offesa, quando la donna, dopo aver denunciato, viene costretta a rivivere la sofferenza». Il suo contributo confluirà nel manifesto che nascerà da Reggio Calabria.
Poi l’intervento della magistratura con la sostituta procuratrice Flavia Modica, che ha fissato un pensiero consegnato alla sala come un compito collettivo: «La violenza di genere deve essere affrontata con la stessa ottica con cui, in questa terra, si affronta il fenomeno mafioso. È un esercizio di potere». Ha citato le riforme, gli strumenti investigativi, l’urgenza delle risorse. «Servono dispositivi, servono persone. Chi denuncia non può essere lasciata in bilico, senza protezione».
A cambiare la prospettiva, lo sguardo della psicoterapeuta e scrittrice Maria Rita Parsi: «L’amore è un abbraccio, non un braccio di ferro. La condizione femminile incide sulla vita del mondo. Quando le donne vengono negate, la società perde la sua capacità di empatia».
Da Roma è arrivata poi Martina Semenzato, presidente della Commissione parlamentare sul femminicidio: «Mi considero la donna del 26 novembre. La lotta alla violenza di genere non si spegne nelle giornate simboliche. È un processo quotidiano». Ha parlato di un patto di corresponsabilità che coinvolge famiglia, scuola, società civile e istituzioni. Ha ricordato il lavoro sulla violenza online e sulla violenza economica che imprigiona le donne. «Denunciare significa mettere in luce. Ogni denuncia deve trovare una rete pronta a sorreggere chi la presenta».
L’avvocato Saveria Cusumano, presidente del CPO dell’Ordine degli Avvocati di Reggio Calabria, in un intervento vibrante, ha richiamato il dovere, per magistratura, forze dell’ordine, media e avvocatura, di proteggere le donne durante e dopo la denuncia, perché la solitudine giudiziaria cancella il coraggio e trasforma nuovamente la vittima in bersaglio. Nel corso della serata è stato esaltato il ruolo decisivo dell’avvocatura, chiamata a muoversi in una zona delicatissima in cui, tra virgolette, «difende le vittime ma, in molte circostanze, anche gli aggressori», assumendo quindi una responsabilità giuridica e morale centrale nella gestione dei casi di violenza.
L’avvocato Saveria Cusumano ha definito la vittimizzazione secondaria «una ferita che si riapre ogni volta che una donna viene costretta a giustificarsi, a difendersi, a essere interrogata sulla propria credibilità invece che sulla responsabilità di chi l’ha annientata». Solo un sistema capace di riconoscere questa violenza nella violenza, infatti, può spezzare il circolo che spinge tante donne a tacere e, troppo spesso, a morire.
Il quadro operativo delle forze dell’ordine è stato tracciato dal dirigente della Questura di Reggio Calabria Enrico Palermo, che ha richiamato la necessità di formazione diffusa, di strumenti di prevenzione, di protocolli capaci di intervenire prima dello schianto. «È un fenomeno che attraversa livelli diversi della società. Nessun fronte può agire isolato».
Sul fronte dell’accoglienza, l’intervento di Francesca Mallamaci, coordinatrice del Centro antiviolenza e della Casa rifugio Angela Morabito, ha ricordato il compito di ricostruire una vita possibile: «Le donne arrivano con i figli, con gli occhi pieni di paura. Lavoriamo perché possano riprendere in mano la loro libertà, perché un giorno non ci sia più bisogno di rifugi».
La cultura ha avuto spazio con il regista Luigi Vircillo, autore di un film che attinge a una storia reale: «Un atto di rispetto verso le donne e verso chi combatte questa battaglia nelle forze dell’ordine». Il cinema come strumento che entra nelle scuole, che modifica alfabeti emotivi.
E poi, su tutto, la responsabilità dell’informazione. Maria Grazia Falduto, direttrice editoriale del Gruppo Diemmecom – Network LaC, ha fissato il perimetro etico della presenza del gruppo: «L’informazione deve rompere il silenzio che circonda le vittime. La vergogna pesa ancora. Gli adolescenti usano spesso linguaggi ostili. Dobbiamo educare al rispetto».
Le parole del presidente del gruppo editoriale Domenico Maduli hanno dato corpo all’impegno quotidiano del network: «Siamo piccoli davanti al dolore delle donne, ma abbiamo il dovere di esserci. Informare significa anche formare. Entriamo nelle scuole per cambiare lo sguardo dei ragazzi».
Simbolica la consegna alle tre testimoni di un riconoscimento realizzato dalla bottega orafa G.B. Spadafora: una creazione che riproduce il “Draco Magnus et Rufus” del Liber Figurarum di Gioacchino da Fiore. Un drago dalle sette teste che, nella visione dell’abate calabrese, annuncia la fine di un’epoca e l’inizio di una nuova era. Altrettanto importante l'impegno dei partner Altafiumara e Aon Assicurazioni, grazie anche ai quali è stata possibile realizzare l'iniziativa. «Un modo per rendere concreto il messaggio “Mai più sola” e per dare ulteriore forza alle tre donne coraggiose» hanno spiegato gli organizzatori. Un simbolo da tenere in vista, non in un cassetto.
Quando le luci sono calate, è rimasto sospeso un filo unico, condiviso da tutte le voci: la Calabria che si guarda allo specchio e sceglie di non distogliere lo sguardo. Da questa serata nascerà un manifesto programmatico che sarà consegnato alla Commissione parlamentare sul femminicidio.
Proposte, linguaggi nuovi, protezioni possibili. La sala è uscita lenta, consapevole che “Mai più sola” non chiude niente, apre tutto.
Perché ogni volta che una donna trova la forza di chiedere aiuto, la risposta deve essere una rete che regge. Una rete che non si spezza. Una rete che non permetta mai, a nessuna, di sprofondare nel silenzio.