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14/04/2025 ore 08.30
Società

Riforma della giustizia, Musolino: «Se la magistratura fosse servente al potere non ci sarebbe più tutela dei diritti»

Ha parlato ai giovani francamente e senza nascondere nulla ha evidenziato come viviamo in un «Governo della paura che crea nemici immaginari orientando le nostre decisioni tramite algoritmi gestiti da pochi»
di Elisa Barresi

La paura vista come un’arma. L’equilibrio e la l’indipendenza come strumenti per tutelare libertà e diritti. Il Procuratore della Repubblica Stefano Musolino ha affrontato temi cruciali legati al sistema penitenziario e al ruolo della magistratura nell’attuale contesto politico e sociale. Nel corso di uno dei progetti Civitas, un’iniziativa che coinvolge giovani nella sensibilizzazione su tematiche carcerarie che mira a creare un ponte tra il mondo esterno e quello dei detenuti, il procuratore ha avuto modo di entrare nel vivo di un’attualità disarmante.

Musolino ha sottolineato l’importanza di un confronto costruttivo sulle riforme del sistema giudiziario. «La giustizia non può essere considerata solo un apparato punitivo, ma deve avere una dimensione educativa e di reinserimento», ha dichiarato il procuratore, evidenziando come i ragazzi impegnati nel progetto stiano contribuendo a smantellare pregiudizi e a promuovere una cultura della legalità.

Il procuratore ha anche affrontato il delicato tema della magistratura, la cui autonomia sembra essere messa in discussione. «La magistratura deve rimanere indipendente e libera da ogni tipo di influenza», ha affermato. Però c’è chi la libertà – anche quella di frequentare una scuola – non l’ha sempre avuta. Musolino l’ha chiamata fortuna o destino, ma è anche una questione di opportunità.

Il dilemma rimane legato a una domanda che alle nostre latitudini sorge spontanea: che opportunità offre oggi questo territorio ai giovani per rimanere fuori da quel circuito che poi porta dentro le carceri?

«Purtroppo non ne dà molte. È uno dei problemi fondamentali che abbiamo. Lo diciamo da un po’ di tempo: affidare soltanto alla repressione penale – e quindi al carcere – la soluzione dei problemi che stanno alla base della crisi di legalità, e quindi anche della capacità che ha la criminalità organizzata di dare risposte ai bisogni delle persone, è una scorciatoia. È prima di tutto un problema socio-economico e culturale. Per questo l’idea di entrare nelle scuole, risponde a un’esigenza: far capire ai ragazzi quali opportunità esistono, come poterle governare, e soprattutto far comprendere loro – anche in questo contesto – quanto sia importante avere accesso a opportunità, rispetto a chi non ne ha avute. Ecco perché è fondamentale stare vicino a chi è più debole e più fragile».

L’esperimento di portare i ragazzi a contatto con queste realtà sembra essere una strada percorribile per avere un cambiamento significativo.

«Funziona. Ed è un esperimento che deve essere portato avanti. Io credo che tutto ciò che serve a togliere il carcere dalla marginalità in cui è rinchiuso, sia necessario. Oggi il carcere viene visto come un luogo dove confinare i problemi sociali. Si pensa che più carcere e più reati, con aumenti di pena, siano una soluzione. Ma questa visione si sposa con le paure che vengono introiettate nella società: serve ad aggregare consenso, a governarlo. Purtroppo, però, non offre soluzioni vere. Sono solo risposte palliative, apparenti. Il carcere non è mai la soluzione ai problemi che percorrono la società».

Ha parlato di un «governo della paura», collegandolo alla questione migranti. Questo “straniero” che dovrebbe farci paura, anche quando non fa paura, anche quando è la parte più fragile, più lesa. Ai ragazzi questo messaggio arriva in modo forte, anche perché è la loro attualità. Ma perché ci vogliono impauriti?

«Sì. Questo è un dato che ormai emerge in modo evidente. Tutta la nostra comunicazione è legata ad algoritmi controllati da pochissime persone, che – soprattutto sui social – governano le nostre scelte, orientandole sempre di più verso la paura. La scienza dimostra che siamo più incuriositi da ciò che ci fa paura. E quindi andiamo a scegliere contenuti che ci spaventano. Gli algoritmi si adeguano e ci offrono esattamente quello: un clima di paura, che però ci presenta una realtà molto più paurosa di quanto sia davvero. La realtà è meno inquietante. Non perché non ci siano problemi di sicurezza pubblica – ci sono – ma andrebbero affrontati per quello che sono. Soprattutto, evitando di individuare categorie nemiche, creando nemici immaginari».

Uno spaccato che sposta la riflessione sull’attuale braccio di ferro che il Governo sta mantenendo chiudendo il dialogo con la magistratura sulla riforma della giustizia. E in questo momento, forse, stanno indicando anche i magistrati come una categoria “nemica”. Significa che anche la magistratura, oggi, viene letta come ostacolo?

«Sì. Questo è un problema che riguarda tutte le democrazie occidentali. I contropoteri al potere esecutivo, come la magistratura, sono vissuti con fastidio, perché si ritiene che ostacolino l’attuazione delle politiche di governo. Ma si dimentica che quello che fa la magistratura – insieme ad altri organi di garanzia – è tutelare i diritti delle minoranze. E diventare minoranza, oggi, ci vuole poco. Pensate a quello che è successo negli Stati Uniti: Elon Musk a un certo punto ha deciso di licenziare una serie di dipendenti pubblici. Gente che non avrebbe mai immaginato di diventare minoranza, si è ritrovata minoranza grazie a una potente macchina social. Le loro prestazioni sono state definite “non adeguate”, “non presentabili”. E sono arrivati i licenziamenti via mail. Ecco, se non ci fosse un giudice, una magistratura autonoma e indipendente, queste persone non avrebbero tutela. Se la magistratura fosse servente al potere della maggioranza del momento – come qualcuno vorrebbe – non ci sarebbe più tutela dei diritti».