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19/10/2025 ore 14.00
Società

Tutto il mondo è paese, quando una ragazza è in bilico tra la vita e la morte ma non si distingue più la realtà dal "contenuto"

Il salvataggio della giovane donna sul davanzale in pieno centro non è solo un fatto di cronaca, ma uno spaccato della società moderna e lo specchio di un problema più profondo: l’incapacità collettiva di provare empatia davanti al dolore

di Aldea Bellantonio

Una ragazza di diciannove anni, seduta sul davanzale di una finestra tra il Corso Garibaldi e la Villa Comunale, per un’ora e mezza ha tenuto sospeso il respiro della città. Mentre i negoziatori della Polizia cercavano di convincerla a desistere e i vigili del fuoco si preparavano a intervenire, sotto si affollava la gente. Molti guardavano. Troppi riprendevano.

È l’immagine di una società che non sa più distinguere la realtà dal contenuto, il dolore dal racconto. Una ragazza in pericolo di vita è diventata, per qualcuno, uno spettacolo da immortalare. C’è chi ha filmato, chi ha fatto videochiamate, chi ha discusso con la polizia locale che — con pazienza e fermezza — chiedeva di smettere, invocando il rispetto. Parola ormai scomparsa dai nostri vocabolari.

E se si può forse comprendere l’incoscienza di qualche ragazzino, attratto dalla curiosità e incapace di cogliere la gravità della scena, resta incomprensibile il comportamento di molti adulti: uomini e donne, padri e madri, che davanti a una vita sospesa nel vuoto hanno trovato il tempo di riprendere, commentare, ridere.

Nei social, il dopo è stato anche peggio. Tra chi si è chiesto se “fosse straniera”, chi ha scritto “un’altra fuori di testa” e chi ha incitato con un “1,2,3, viaaa”, la bacheca di una notizia drammatica si è trasformata in un palcoscenico di superficialità, rabbia e ignoranza. Pochi, pochissimi, hanno provato a riportare l’attenzione sull’unica cosa che contava davvero: la vita di una giovane donna, e il suo dolore.

Ma cosa raccontano davvero quei video, quei commenti, quella folla? Raccontano che abbiamo perso la misura, la delicatezza, il pudore. Raccontano che siamo abituati a guardare tutto, ma non vediamo più nessuno. Dietro ogni gesto estremo c’è sempre una storia di sofferenza, di isolamento, di silenzio. Chi arriva a sedersi su un davanzale non lo fa per attirare l’attenzione, ma perché non trova più un ascolto. E ieri, invece di quell’ascolto, ha trovato una piazza piena di telefoni.

È anche giusto e doveroso ricordare che la responsabilità della diffusione delle immagini non appartiene alla folla, ma ai media. Ed è qui che si misura la differenza tra chi insegue un clic e chi rispetta un codice deontologico. Mostrare il mostrabile, proteggere ciò che va tutelato: questo è — e deve restare — il dovere del giornalismo. Non tutto può e deve essere reso pubblico, soprattutto quando il confine tra informazione e spettacolo si fa così sottile.

Non basta dire “poverina” nei commenti, né indignarsi dopo aver condiviso un video. Serve imparare il rispetto, anche nel dolore altrui. Serve capire che non tutto può essere raccontato in tempo reale, e che ci sono momenti in cui il dovere di ogni cittadino è distogliere lo sguardo.

La ragazza è viva, grazie alla professionalità di chi l’ha salvata. Ma Reggio Calabria — e con essa ognuno di noi — dovrebbe chiedersi se è ancora capace di vedere, davvero vedere, la fragilità che ci abita accanto ogni giorno. Perché se davanti al dolore la prima reazione è prendere in mano un telefono, allora qualcosa di profondo, dentro di noi, si è già spento. E il silenzio, quello vero, quello che nasce dal rispetto, è forse l’unico punto da cui possiamo ricominciare.